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Intervista sul nucleare all'Ing. Romanello

Ing. Romanello, a 20 anni dalla tragedia di Chernobyl, qual è il livello di sicurezza delle attuali centrali nucleari?

Le attuali centrali nucleari presentano caratteristiche di sicurezza assoluta. Oggi le unità nucleari in funzione nel mondo sono 440 (e si parla delle sole unità in campo civile, essendo quelle militari spesso coperte da segreto), e considerando che i primi reattori nucleari commerciali hanno cominciato ad erogare energia elettronucleare sulla rete negli anni ’50 (nel 1956 Calder Hall in UK e nel 1957 Shippingport negli USA), abbiamo accumulato una esperienza operativa di circa 10000 anni/reattore: è come dire che un reattore nucleare ha funzionato per 10 000 anni! I risultati sono evidenti: l’Italia è circondata da nazioni ‘nuclearizzate’ (57 unità in funzione in Francia, 20 in Germania, 9 in Spagna, 5 in Svizzera, 1 in Slovenia solo per fare degli esempi) e l’energia elettronucleare copre il 35% del fabbisogno dei paesi dell’Unione Europea: mai nessun incidente in impianti europei ha causato vittime o danni consistenti. Del resto dai tempi dell’incidente di Chernobyl la potenza nucleare installata nel mondo è aumentata del 40% (raggiungendo e superando i 350 000 MW elettrici), e sono in costruzione 44 nuovi impianti in 15 diversi paesi. E’ evidente quindi che tale fonte nel mondo non è certo stata oggetto di ripensamenti.

L’unico incidente serio avvenuto nel mondo occidentale è quello di Harrisburg (Pennsylvania, USA) il 28 marzo del 1979 nell’impianto di Three Mile Island: la combinazione sinergica dell’errore umano e di un difetto tecnico ha portato alla fusione del nocciolo del reattore. L’incidente fu classificato di gravità 5 nella scala INES (sviluppata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – va da 1 a 7, con un incremento di un fattore 10 nella severità per ogni livello). Non ci furono vittime, e l’equivalente di dose assorbito dagli abitanti in un raggio di 10 miglia fu di appena 8 millirem (se ne assorbono mediamente 300 ogni anno da fonti naturali, a seconda dei posti e delle abitudini di vita  – con picchi anche 5 volte superiori!). L’incidente ha dimostrato che negli impianti di tipo occidentale nonostante tutto anche in caso di incidente gravissimo i danni ambientali sono molto contenuti. Peraltro l’esperienza operativa ha migliorato grandemente la sicurezza di tali installazioni, e oggi l’impianto di Three Mile Island (che ho visitato personalmente) è stato classificato come il quarto più sicuro al mondo!

Molto diverso invece il discorso per i reattori ex-sovietici: l’incidente avvenuto nell’impianto di Chernobyl (Ucraina) il 26 aprile 1986 è stato causato da imperizia degli operatori (messi a capo per meriti di partito e non per competenze tecniche) ed imperdonabili errori di progettazione. Da quell’incidente bisogna dire che abbiamo imparato ben poco in occidente: i nostri reattori sono molto diversi, ed una tale macchina qui da noi non avrebbe mai ottenuto dall’ente di controllo il permesso di essere realizzata. L’incidente scaturì infatti dall’effettuazione maldestra di un test, già precedentemente effettuato e fallito, che rese instabile ed ingovernabile il reattore (a causa dell’accumulo dello xeno – fatto ben noto agli addetti ai lavori). Le barre di controllo furono estratte più di quanto era ammesso, il reattore presentava un coefficiente di reattività positivo (ossia la mancanza d’acqua favoriva la reazione a catena), accoppiava l’uso di acqua e grafite (fatto impensabile dal punto di vista della sicurezza – questi elementi ad alta temperatura formano metano!), mancava completamente l’edificio del contenimento (essenziale e sempre presente negli impianti occidentali!). Mancava poi un piano di emergenza e persino le pasticche di iodio da distribuire alla popolazione. L’incidente fu classificato di gravità 7 nella scala INES (cioè 100 volte più grave di quello di Three Mile Island).

Negli impianti di tipo occidentale un piano di emergenza/evacuazione è pronto da prima di accendere l’impianto anche solo per la prova di test. Inoltre è sempre presente l’edificio di contenimento. Trattasi di un edificio di calcestruzzo spesso un metro, con maglia di acciaio ed intercapedine in depressione per aspirare e controllare eventuali fuoriuscite: serve per proteggere l’impianto dall’esterno (è stato testato per l’impatto di un Boeing 747) e viceversa (contenimento dei prodotti radioattivi in caso di fuoriuscita – fu determinante nell’incidente di Three Mile Island!). Inoltre i reattori occidentali presentano coefficienti di reattività negativi, e decine di mezzi ausiliari di controllo/sicurezza (basti pensare, ad esempio, che per muovere le pompe e raffreddare il nocciolo anche in caso di incidente sono a disposizione 4 enormi motori diesel: uno sempre acceso, uno in stand-by, uno spento, ed uno in manutenzione!). Questo solo per citare alcune delle caratteristiche più importanti. Tali dispositivi peraltro sono ‘di serie’ sin dagli albori della tecnologia nucleare (donde l’assenza di incidenti gravi paragonabili in impianti occidentali).


Quali sono i possibili sviluppi della tecnologia nucleare per il futuro?

Intanto vorrei citare quali sono i reattori già disponibili sul mercato: cito l’AP-600 della Westinghouse, l’ABWR della General Electric, l’EPR - reattore europeo frutto del consorzio franco-tedesco, il PBMR della sudafricana ESKOM, solo per fare degli esempi; presentano tutti caratteristiche di sistemi di sicurezza potenziati, basati soprattutto su sistemi di protezione intrinseca e passiva (ossia la protezione dell’impianto si basa su fenomeni fisici che si innescano spontaneamente per motivi fisici, al contrario rispetto al passato, quando la sicurezza era per lo più affidata a mezzi attivi da operare in sala di controllo), grazie anche all’esperienza operativa acquisita negli anni dagli operatori e dai progettisti, modularità nella costruzione (ossia al contrario rispetto al passato vengono costruiti quasi interamente in officina, riducendo al massimo le operazioni in cantiere, e quindi sensibilmente anche i tempi ed i costi di realizzazione).

Ci sono due canali di sviluppo: il primo, a breve termine che porterà ai reattori cosiddetti ‘generation III+’ (quelli oggi disponibili sono della generation III), a partire dal 2010, ed uno, a più lungo termine (dal 2030 in poi) che porterà ai reattori ‘generation IV’.

I maggiori sviluppi futuri si avranno appunto in questa filiera di reattori. Fra gli obiettivi principali ci sono ulteriori avanzamenti nella sicurezza, resistenza alla proliferazione nucleare, costi competitivi, minimizzazione della produzione di scorie ed ottimizzazione delle riserve dei combustibili. I reattori di questo tipo oggi allo studio sono: i reattori veloci raffreddati a gas (GCFR), i reattori veloci raffreddati al piombo (LMFBR), i reattori a sali fusi (MSR), i reattori veloci raffreddati a sodio (LMFBR), i reattori nucleari ad acqua supercritici (SWCR), i reattori nucleari ad alta temperatura (VHTR).

Fra gli impianti di IV generazione assumono un certo rilievo questi ultimi (nel cui studio siamo coinvolti), che oltre ad essere economici, sicuri e rispettosi dell’ambiente, hanno la potenzialità di bruciare le scorie nucleari producendo idrogeno per l’autotrazione.

A fronte di tale situazione vorrei ricordare che le fantasiose ‘energie alternative (le ‘fonti energetiche ancora da scoprire’, come le ha definite il segretario all’energia USA Spencer Abraham), se si esclude il contributo dell’energia idroelettrica (che non può essere sfruttata ulteriormente) e geotermica, sono costate al nostro paese, nel periodo 1981-2002, ben  98 902 miliardi delle vecchie lire (escludendo i progetti di ricerca e sviluppo dell’ENEA), producendo una quota del fabbisogno nazionale pari allo 0,09%! I motivi di questo fallimento sono ovvi agli occhi di qualunque tecnico: una fonte di energia per essere sfruttabile con successo deve essere concentrabile, indirizzabile, frazionabile, continua, e regolabile, requisiti difficilmente ottenibili con l’energia eolica o solare.

Per converso vorrei qui ricordare che per produrre l’energia elettrica che un italiano consuma in un anno occorrono 900 chilogrammi di carbone, o 500 di petrolio, oppure 10 grammi di combustibile nucleare!

Un capitolo a parte poi è rappresentato dalla ricerca sulla fusione nucleare: abbiamo calcolato che dal deuterio (l’isotopo dell’idrogeno) presente in un litro di acqua si può ricavare l’energia di oltre 300 litri di benzina (o mezza tonnellata di carbone)! Le ricerche in tale settore sono attive in tutto il mondo, ed anche nel nostro paese il centro ENEA di Frascati (che anche a suo tempo ho visitato) è attivo sul settore. Peraltro a Cadarache (nel sud della Francia) verrà costruito il reattore sperimentale a confinamento magnetico ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor – reattore tipo Tokamak), frutto del consorzio di Unione Europea, Russia, Cina, Giappone, Stati Uniti, India e Corea del Sud, dal costo di 10 miliardi di euro. Il fine è quello di produrre un’energia da 5 a 10 volte superiore a quella necessaria per mantenere il plasma alle temperature di fusione nucleare, ma la potenza generata non potrà essere utilizzata per la produzione elettrica (compito affidato a reattori futuri di concezione più avanzata). I problemi tecnici ancora da affrontare sono comunque ancora molti, ed una stima ragionevole indica che tale fonte di energia non sarà disponibile prima di 30-40 almeno. Anche questa tipologia di reattori inoltre presentano un impatto ambientale non nullo: basti pensare ai materiali di attivazione neutronica ed alla produzione del tritio (isotopo radioattivo dell’idrogeno).


Dopo il referendum come è proseguita (se è proseguita) la ricerca in questo settore, in Italia?

Innanzitutto vorrei spendere due parole di chiarimento sul referendum, poiché sento spesso molte inesattezze e teorie fantasiose in merito. Il referendum del 8-9 novembre 1987 non era abrogativo, ovvero non poneva il quesito “nucleare si, nucleare no”, perché non poteva esserlo: la nostra costituzione vieta infatti i referendum abrogativi in materia di fisco e norme comunitarie, e trent’anni prima i capi di stato dei sei paesi della nascente Comunità Europea – fra cui l’Italia – avevano istituto l’Euratom con gli atti di Roma e si erano impegnati solennemente a sviluppare una ‘potente industria nucleare’. Riporto di seguito il testo dei referendum:

1-    Volete che venga abrogata la norma che consente al CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti?

2-    Volete che venga abrogato il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a carbone?

3-    Volete che venga abrogata la norma che consente all’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero?

I quesiti sono talmente intricati che anche un ingegnere nucleare non riuscirebbe a rispondere con tanta facilità: risulta evidente però che con essi il nucleare nel nostro paese in realtà non è mai stato abolito (come si sente falsamente dire tanto spesso!). All' atto pratico, con le tre domande si chiedeva di cancellare alcune disposizioni di legge concepite per rendere più facili e rapidi gli insediamenti energetici (non necessariamente nucleari, ma anche a carbone!): la prima era stata creata per evitare che il sindaco di un piccolo paese di duemila abitanti dove era previsto l’insediamento di una centrale nucleare potesse opporsi ad oltranza, mentre la seconda era la cosiddetta “monetizzazione del rischio” per i comuni che ospitavano impianti di produzione di energia (fatto molto ingiusto a mio avviso, poiché è giusto invece che se un comune accetta di ospitare sul proprio territorio un impianto di un certo tipo di cui beneficia tutto il paese, è giusto che ne abbia un adeguato compenso!).  

Si arrivò ad una moratoria di cinque anni, che per una interpretazione del tutto politica permane fino ad oggi. In seguito lo stesso onorevole Andreotti ebbe a dire:”…se oggi andiamo a rileggere gli atti delle polemiche parlamentari attorno a questo problema, c’è da arrossire collettivamente non solo per la mancanza di senso scientifico di alcune posizioni di allora, ma anche per la miopia delle decisioni prese”. Come ha ripetutamente ricordato l’Ing. Fornaciari vale la pena di ricordare quanto scriveva 65 anni fa Paul Valery nel suo Saggio Sguardi sul mondo attuale: ”La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò che la riguarda. In un’epoca successiva si aggiunse l’arte di costringerla a decidere su ciò che non capisce”.

E’ naturale che in seguito questo settore è entrato in crisi: molte delle aziende e degli enti che si occupavano del nucleare hanno dovuto ridurre drasticamente il personale. E questo è stato il danno più grave: molte delle persone competenti in materia ormai sono in pensione, ed il permanere di questa situazione assolutamente paradossale per il nostro paese non ha consentito un adeguato turnover generazionale. Certo potremo sempre ripartire acquistando gli impianti ‘chiavi in mano’, ma l’ente di controllo dovrà sempre essere ‘indigeno’ ed indipendente, quindi saranno necessarie competenze specifiche in materia. Più tempo passa più questo diventa complicato, e si corre il rischio di perdere un treno che potrebbe invece rivelarsi importantissimo per il nostro futuro a medio e lungo termine. Tuttavia la ricerca, almeno in ambito accademico è continuata e continua tuttora, anche se è affidata sempre più ad un manipolo di persone sempre più esigue ed isolate, seppur molto preparate e motivate. Questo è l’unico dato che mi incoraggia ancora: la classe nucleare italiana in questi anni, nonostante tutto, ha continuato a lavorare con serietà ed in silenzio. Io stesso partecipo tuttora ad attività di ricerca in questo settore (seppur part-time), ed i nostri articoli sono presentati in convegni internazionali (l’ultimo l’anno scorso ad Oak Ridge, negli USA, a cui ho preso parte in qualità di rappresentante delle Università di Pisa e Genova) sul bruciamento delle scorie nucleari attraverso l’uso di cicli simbiotici con reattori nucleari ad alta temperatura. Per i dettagli delle nostre attività consiglio di visitare il sito:

http://www.ing.unipi.it/~d0728/GCIR/gcir.htm.

Del resto quello che spesso non viene detto è che l’Italia ha rinunciato alla produzione di energia elettronucleare, ma la consuma importandone il 18% del fabbisogno nazionale dalla Francia, dalla Svizzera, e persino dalla centrale slovena di Krsko a 120 Km da Trieste! La nostra fortuna è stata che i francesi hanno sovrastimato il loro fabbisogno energetico, costruendo 7 centrali nucleari in più che, di fatto, lavorano per noi. Il prezzo di produzione dell’energia nel nostro paese infatti è talmente elevato che conviene di gran lunga importarla, anche comprando l’energia francese dalla Svizzera, poiché gli elettrodotti sul confine con la Francia sono saturi. Il motivo è ovvio: non si può avere un’energia a buon prezzo se per produrla si brucia il combustibile più caro e prezioso in assoluto!


Il recente caso di Scanzano Ionico (indicato come sito nazionale di stoccaggio delle scorie), dimostra quanto siano radicate in Italia le resistenze verso questa tecnologia, crede siano superabili in futuro?

Credo che siano superabilissime: basterebbe informare correttamente la popolazione, dicendo la pura e semplice verità, la scelta nucleare scaturirebbe come logica conseguenza. Può sembrare paradossale, ma faccio degli esempi pratici. Da vent’anni si è parlato Chernobyl, di radioattività, di migliaia di morti, ma alcune semplici cose non sono mai state dette. Ad esempio: sapete che a causa dei raggi cosmici ad una altitudine di 10 000 m (dove manca la barriera dell’aria) l’equivalente di dose è di 0,7 mrem/ora (il millirem è la vecchia unità di misura, oggi sostituita dal Sievert del sistema SI), ovvero che in un viaggio dall’Europa all’America si riceve un equivalente di dose pari a quello che ricevono le persone che vivono adiacenti ad un impianto nucleare per un anno intero (stimato in 5 mrem/anno)? O che è maggiore la differenza nell’equivalente di dose assorbito fra persone che vivono in una casa di cemento o mattoni (naturalmente radioattivi a causa del potassio-40) rispetto a quelle che vivono in una casa di legno in confronto alla dose che assorbono coloro che vivono nelle adiacenze di un impianto nucleare in funzione? Sapete che anche il corpo umano è (seppur debolmente) radioattivo, emettendo circa 10 000 ‘colpi’ al secondo (a causa del potassio-40 e del carbonio-14 e degli altri radionuclidi)? Sapete che nell’area proibita di Chernobyl ‘la radioattività’ è dell’ordine di 500 mrem/anno, mentre a Piazza San Pietro, a Roma, è di 700 mrem/anno (a causa del selciato fatto di cubetti di porfido, roccia vulcanica fortemente radioattiva a causa del suo alto contenuto di potassio, uranio e torio)?

Sapete che se un uomo consumasse la sola energia nucleare per tutti i fabbisogni energetici della sua vita produrrebbe un volume di scorie pari ad una sfera di 8,3 cm di diametro (ossia un volume inferiore ad una lattina di coca-cola)? E ancora, per concludere, sapete che circa due miliardi di anni fa si sono creati ben 17 reattori nucleari naturali ad Oklo (Gabon) che hanno erogato energia per oltre 1 milione di anni: ebbene il plutonio si è spostato di soli 3 metri, provando l’estrema affidabilità dei depositi geologici?

Naturalmente potrei continuare con esempi analoghi molto a lungo. I dati che ho riportato sono assolutamente veritieri e, ciò che più importa, verificabili. Nessuno dovrebbe fare atti di fede (ne in me nè in altri), ma dovrebbe essere spronato a capire la realtà delle cose.

Le scorie rappresentano un problema molto minore di quello che si crede (sul sito sopra indicato si trova un articolo, edito sulla rivista ’21mo Secolo’ nel luglio 2005, dove spiego compiutamente la tematica). Peraltro bisogna capire che un sito nazionale è assolutamente necessario, a prescindere dalla scelta nucleare: infatti pur avendo rinunciato a questa forma di energia continuiamo a produrre annualmente ingenti quantitativi di rifiuti radioattivi (soprattutto da applicazioni di medicina nucleare). Attualmente sono comunque stoccati (in vari siti sparsi per l’Italia), ma non come potrebbero e dovrebbero!

Vorrei spendere poi due parole sulla situazione dell’opinione pubblica italiana in merito a questa questione e sulle sue cause reali. I movimenti ‘ambientalisti’ che si oppongono allo sfruttamento dell’energia dell’atomo rappresentano solo la ‘parte emersa’ di un insieme di interessi: quelli del sistema petrolifero e metanifero, che operano in regime di monopolio; quelli elettorali dei partiti politici che hanno cercato ed ottenuto facili consensi sfruttando il terrore e la disinformazione seguita al tragico incidente di Chernobyl; quelli dell’erario statale, che ricava guadagni ingentissimi dalle accise sul petrolio e sul gas, quelli delle correnti politiche e di potere che hanno prosperato per anni grazie ai finanziamenti occulti delle lobby petrolifere (almeno tre processi negli ultimi anni hanno tentato di far luce in merito). Appare naturale che in questo ginepraio di interessi tutti convergenti sulla necessità di consumare la massima quantità di petrolio e gas non può esserci spazio per il nucleare. E così oggi l’Italia per produrre l’energia elettrica di cui necessita brucia più gasolio di quello degli altri paesi dell’Unione Europea messi assieme, con grande danno per l’ambiente e per le tasche dei cittadini! I media nazionali sono poi, direttamente o indirettamente, sponsorizzati da persone o gruppi che hanno interessi prominenti nel mondo del petrolio e del gas; ben pochi vivono delle informazioni vendute al pubblico (anzi, talvolta tale componente dei bilanci è secondaria). Come potrebbe un sistema così squilibrato fare informazione in modo obiettivo?

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ed anche il grande pubblico, nonostante tutto inizia ad accorgersene: l’uscita del nucleare è costata al nostro paese 100 miliardi di euro, lo smantellamento di un settore che dava lavoro a 20 000 persone, l’aumento dell’impatto ambientale e della dipendenza dall’estero, ed infine il costo di produzione del KWh più alto d’Europa. A questo proposito ricordo qui che oggi gli impianti nucleari producono energia elettrica ad un costo compreso fra 20 e 30 centesimi di euro/KWh (come dimostro estesamente in un mio articolo in corso di stesura), fra i più bassi possibili (al contrario di coloro che dicono che l’energia nucleare è costosa!), includendo in tale calcolo anche lo smaltimento in sicurezza delle scorie e l’accantonamento delle cifre necessarie per il successivo smantellamento della centrale fino alla situzione di ‘green field’ (praticello verde), come si suol dire. I soli a trarre vantaggio da questa situazione sono stati coloro che avevano interessi nel mondo del petrolio e del gas; nel frattempo i movimenti ambientalisti nostrani intrattenevano con l’ENI e la SNAM rapporti a dir poco idilliaci.

Qualcuno ricorda cosa successe a Trecate, in provincia di Novara, il 28 febbraio 1994? Il tappo di un pozzo di trivellazione sito nel bel mezzo del parco naturale del Ticino saltò, scaturendone una eruzione di petrolio, gas ed acido solforico; la situazione rimase fuori controllo per ben tre giorni. Ci fu la paralisi dei trasporti in quella zona, e fu chiamato addirittura un tecnico da Houston (esperto nello spegnimento dei pozzi kuwaitiani). Decine di persone dovettero lasciare le proprie case ed il sindaco di Trecate proibì la vendita ed il consumo di prodotti agricoli. Quando alla fine il flusso incontrollato si interruppe solo grazie al crollo delle pareti del pozzo un’area di 5 chilometri quadrati era ricoperta da una patina vischiosa e l’inquinamento da idrocarburi si estendeva per 40 chilometri quadrati. Per rimediare furono fermate tutte le attività agricole e furono asportati 10 centimetri di terreno per un’area di 5 000 metri quadrati, proprio come a Chernobyl. Ebbene, la vicenda ha interessato i media nazionali per non più di tre giorni. E oggi, grazie anche all’impegno ambientalista dell’Agip, non se ne ricorda più nessuno.


Un altro tema di attualità è legato all’utilizzo dell’idrogeno come combustibile; lei collabora allo sviluppo di un interessante progetto di ricerca, di cosa si tratta?

L’idrogeno è di per se un ottimo combustibile, perché in condizioni opportune bruciando produce sostanzialmente solo vapore acqueo, ed inoltre lo si può estrarre dall’acqua. Tuttavia non si trova libero in natura (salvo eccezioni rarissime), e per produrlo bisogna spendere energia. Non è quindi una fonte, bensì un vettore energetico. Il problema quindi è quello di tirar fuori l’energia da qualche parte, e qui le proposte sono svariate. Sarebbe molto interessante produrlo dalle fonti alternative, come suggerito da più parti, ma quando le cose si devono fare davvero bisogna fare i conti con le cifre. Le fonti alternative possono fornirci solo una piccola frazione dell’energia di cui abbiamo bisogno, peraltro a costo molto elevato. Attualmente l’idrogeno si produce dal metano, ma solo come reagente e non come combustibile (naturalmente in questo modo non si eliminerebbe il problema del rifornimento di idrocarburi ed inoltre per questa via per ogni Kg di idrogeno si producono 7 Kg di anidride carbonica!). Una proposta futuribile ed interessante è stata quella che ho suggerito nella mia tesi di laurea: bruciare le scorie nucleari (in particolare il plutonio e gli attinidi minori, anche quello di provenienza militare) in reattori ad alta temperatura e sfruttarne le caratteristiche per produrre idrogeno dall’acqua per termolisi (processo I-S). Unico sottoprodotto del processo è l’ossigeno. Non si tratta di una teoria: mentre nel nostro paese si chiacchiera altri paesi come il Giappone, la Cina e gli Stati Uniti stanno realizzando e testando questo tipo di macchine. I giapponesi sono riusciti a produrre idrogeno in maniera continua per questa via per 48 ore: il passo successivo è quello di costruire un piccolo impianto pilota che dovrebbe provare la fattibilità industriale.


Nel futuro prossimo l’idrogeno potrà sostituire i combustibili fossili?

Naturalmente è difficile dire cosa ci riserva il futuro, ma una cosa è certa: il nuovo millennio ci propone delle sfide economiche, ambientali, e geopolitiche impegnative, da affrontare con determinazione, con coraggio e soprattutto con lungimiranza. Il rapido aumento della popolazione terrestre con il parallelo aumento degli standard di vita e quindi dei consumi ci suggerisce di trovare quanto prima delle valide alternative ai combustibili fossili tradizionali, in particolar modo al petrolio.

L’idrogeno, come ho già detto sarebbe un buon mezzo, ma non può sostituire i combustibili fossili in quanto non è una fonte ma un vettore, come già spiegato. Questi enormi quantitativi di energia bisognerà ricavarli da qualche parte, in maniera economica e rispettosa dell’ambiente. Non è un problema facile.

Bisogna poi ricordare che un’economia all’idrogeno richiederà la costruzione di enormi infrastrutture dedicate, non realizzabili in tempi brevi. Inoltre alcuni problemi tecnici sono ancora in corso di studio: l’idrogeno è infatti difficilmente immagazzinabile. Presenta un altissimo contenuto energetico in rapporto al peso, ma molto basso in rapporto al volume, essendo un gas molto leggero (14 volte più dell’aria). Oggi le soluzioni più adottate riguardano l’immagazzinamento in bombole ad altissima pressione, che però sono ingombranti e pesanti. Sono allo studio quindi dei serbatoi realizzati con materiali compositi innovativi, assai più leggeri. Altra via studiata sono i contenitori criogenici (dove si immagazzina l’idrogeno liquido), dove però l’idrogeno non si può conservare indefinitamente, e sono allo studio anche gli idruri metallici (ancora costosi, poco efficienti e pesanti, ma la ricerca sta facendo notevoli passi avanti in questo senso – basti pensare alla tecnologia degli idruri di litio).

Un’altra interessante proposta è quella di produrre grandi quantità di alcol etilico dalle biomasse (una tale soluzione è già stata applicata con successo in nazioni come il Brasile), da ‘bruciare’ poi in efficientissime batterie a combustibile, su cui sono in corso le ricerche.

In definitiva, la nostra salvezza energetica futura riguarderà sicuramente un mix oculato di diverse fonti, che dovranno essere scelte in base a considerazioni di convenienza tecnico-economica-ambientale: sarebbe un grave errore escludere il fattibile per arbitrarie motivazioni ideologiche.

Del resto come ho già avuto modo di riprendere in un mio seminario sulle applicazioni non elettriche degli HTR (High Temperature Reactors): “L’energia del futuro, quella a cui bisogna giungere per garantire la sopravvivenza della civiltà umana nell’attuale prospettiva tecnologica, deve essere non nociva, inesauribile o completamente rinnovabile, ma soprattutto disponibile sempre e ovunque nel mondo, immune ai monopoli nazionali ed alle dispute politiche”.

Molto del futuro nostro e dei nostri figli dipenderà dalla saggezza e dalla lungimiranza delle nostre decisioni attuali.